Speri Della Chiesa Jemoli (1865-1946)


(Try Ko Kumer) – Il principe dei poeti bosini

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Speri Della Chiesa Jemoli, nasce a Varese il 25 dicembre 1865 da Emanuele Della Chiesa, avvocato, e da Angelica Zerbi; vi muore il 9 gennaio 1946. Sposa Alma Giudici ed avrà l’adorata figlia Angelica. Nel 1912 viene adottato dal Dottor Oscar Jemoli.
Autodidatta appassionato ed intelligente si forma una profonda cultura in particolare di letteratura italiana, ma diviene anche fine conoscitore di musica e fotografia “Letteratura, musica, polpett, politica, pittura, cicolatt…” così Speri definisce la “poesia”: una ricetta di pagine scritte miste a musica, di cui era un fine amatore, polpette, politica, nella sua fede repubblicana, pittura e cioccolato.


Dopo una giovinezza indisciplinata e in parte avventurosa (fuga dal collegio, soggiorno per lavoro a Marsiglia presso l’ufficio di un armatore (1880), si diede al giornalismo, collaborando anzitutto a “L’uomo di pietra” di Camillo Cima (1892), organo del Partito Repubblicano; fondò nel 1893 e diresse, poi, in qualità di direttore-proprietario fino al 1914 il giornale “Il cacciatore delle Alpi”, settimanale repubblicano molto diffuso nel Varesotto sulle cui colonne fecero tra l’altro la loro prima apparizione, a puntate, “I nostri buoni villici”, vale a dire l’opera sua poetica più importante e apprezzata, costituita da scenette rusticane dialogate.


Più tardi, abbandonato il giornalismo politico, trovò impiego presso la Banca Cooperativa di Varese che, fusasi poi col Banco Mazzola, divenne il Credito Varesino, del quale si occupò praticamente fino all’ultimo respiro. Dotato di facilissima e felicissima vena, Speri Della Chiesa Jemoli era solito firmare con lo pseudonimo “Try Ko Kumer” la sua copiosa produzione di novellette, canzoni, sonetti, madrigali, giaculatorie, panzanegh e pennellad, bosinad e matoccad, che – anche se buttate giù nella corrispondenza privata con amici e colleghi – avevano subìto rapidissima diffusione, diventando così ufficialmente di pubblico dominio, sebbene non date alle stampe.


L’ispirazione istintiva ed efficacissima, spesso sposata ai pregi della più autentica poesia, resero pertanto Speri Della Chiesa Jemoli ben conosciuto in tutti gli ambienti lombardi, dove fosse di casa la musa vernacola: sicché egli divenne amico, per esempio, del Negri e del Medici, dei fratelli Cima e di Renato Simoni; ammiratore fervido di Guido Bertini, scrisse per la morte di lui alcuni dei propri versi più belli e commoventi. Che dire poi della raccolta Vers… de lira, così ricca di spunti, pur nella sobria veste? Vogliamo ricordare qui, soprattutto, El quart d’ora de Giavan, Don Vincente, I parvénus, Quatter giaculatori a Sant’Antoni, La canzon d’ol boschiroeu, Ta sa regordat?, per non citare che le composizioni più note e famose.


Come gli antichi rapsodi o i più recenti menestrelli, soleva spesso accompagnarsi – nella recitazione dei suoi versi – con la chitarra e il successo era sempre tale e tanto, che fu più d’una volta richiesto di allietare riunioni conviviali nella sua duplice veste di poeta e di musico. Nella canzone popolare Su, massera! seppe financo riprendere magistralmente la forma della ” villotta ” o ” villanella ” che, sostituendo gli ” strambotti “, venne in sì grande onore nel XVI secolo.


Anche per Speri Della Chiesa Jemoli, come avviene tuttavia per vari autori, e segnatamente per vari poeti anche grandi e grandissimi, gli ” inediti” (e già ne abbiamo accennato le ragioni) sono molti. Ben raramente un poeta procede componendo di getto la sua opera; così abbozzi, frammenti, semplici annotazioni o anche intere operette rimangono ignorate dal grosso pubblico, sia perché l’autore stesso viene sorpreso dalla morte prima della distruzione totale del suo lavoro o prima dei ritocchi finali che ritiene utile apportarvi, sia perché non stima opportuno – per un motivo o per l’altro – di darlo alle stampe. Comunque, il grosso pubblico rimane in tal modo privato (defraudato quasi) di versi smaglianti o faceti, drammatici o teneri, secondo le circostanze. Ed è, spesso, una più o meno grave perdita: una perdita, a ogni maniera, del patrimonio culturale o artistico, come quando vada smarrita la tessera di un mosaico, che toglie in ogni modo completezza alla veduta d’insieme.


Questo è il caso appunto del poemetto “Sonetti prostatici” di Speri DeJla Chiesa Jemoli, che vede oggi la luce per la prima volta, dopo oltre trent’anni di oscurità. Breve e intuitiva la storia (il titolo dice tutto) del suo ” iter” compositivo. Infatti, dall’agosto 1942 al febbraio 1943, l’autore – che aveva allora circa settantasette anni – ebbe a soffrire, come molti giunti ormai a quella veneranda età, di un aggravamento dei propri disturbi urinari che lo decise ad affrontare l’operazione radicale di prostatectomìa (asportazione della prostata, ghiandola a forma di castagna e anulare, che contorna l’uretra maschile, appena all’uscita dalla vescica), con la speranza di essere da quelli definitivamente liberato, poiché dipendono dall’abnorme ingrossamento senile della ghiandola stessa. Si rivolse pertanto all’allora chirurgo primario dell’Ospedale Civico di Varese, prof. Carlo Rodolfo Fumagalli, il quale – ad onta delle difficoltà offerte dal particolare ” caso” – non si tirò certamente indietro. Ebbe inizio così il calvario del poeta che non fu né lieve, né breve: un ” calvario” in piena regola (si pensi, tra l’altro, all’insufficienza dei mezzi tecnici del tempo, alle difficoltà dell’anestesia, alla mancanza di antibiotici o di altre, specifiche terapie antibatteriche di elevata, sicura attività e, soprattutto, allo stato di guerra in cui ci si trovava) dal quale, egli seppe trarre lo spunto, fra malinconico e arguto, per una serie di piacevoli sonetti, riuniti poi a formare in ordine scrupolosamente cronologico un coerente poemetto, che intitolò ” Sonetti prostatici ” e di cui fece omaggio al suo illustre chirurgo ed amico. Poemetto rimasto per ovvie ragioni obsoleto (l’ovvietà cui alludo è fatto di costume!); cioè fino ai giorni in cui i tempi sembrano ormai divenuti propizi (dopo l’esplosione di opere di poesia e di narrativa, di teatro e di cinematografo, in cui s’impone il turpiloquio più smaccato, che accompagna spesso situazioni tali da far arrossire il tradizionale carrettiere) perché – assieme a una certa, sbrigliata libertà di espressioni, che oggi tuttavia non turba certamente più nessuno – se ne conoscano i pregi di efficacia, di arguzia, di bonomìa, di umanità e, perché no?, di poesia nel senso della portiana salacità.


I disturbi citati, a quanto pare, duravano già da un pezzo; ma, nel maggio 1942, le prime avvisaglie di una più seria recrudescenza si fanno di bel nuovo sentire; ne fa fede una prima sìlloge di quattro sonetti intitolati “Tòrnom de cap?” nei quali, con brio e precisione oseremmo dire “clinica”, la situazione (l’anàmnesi prossima in senso medicochirurgico) viene fotografata in smaglianti endecasillabi, che vale la pena di leggere a mo’ di preludio. Si tentano cure medicamentose, si tenta la “radioterapia”, ma tutto è inutile; fra il 9 e il 30 ottobre del 1942, infatti, il poeta viene operato
– in due tempi, secondo le consuetudini tecniche di allora – di prostatectomìa stando alla cronologia dei sonetti. Il 31 ottobre, a quanto pare, anche la convalescenza immediata del secondo tempo è stata felicemente condotta a termine sotto le vigili cure del prof. Fumagalli. Successivamente si arriva, sempre in avanzata convalescenza, al settantasettesimo compleanno di Speri Della Chiesa Jemoli (25 dicembre 1942, ripetiamo); il poeta compone allora il suo sonetto augurale (natalizio), dedicato: “Al caro amico, insigne chirurgo, prof. Fumagalli al quale devo d’essere giunto fin qui. Con infinita gratitudine”.


Tutto, dunque, sembra volgere al meglio. Ma, a gennaio del 1943, un “punto” che non ha “tenuto” a dovere favorisce il formarsi di una piccola fistola vescicale. Operare di nuovo? Non operare? Attendere? Il poeta nicchia e testimonia la propria perplessità, il proprio disappunto, il proprio sconcerto dapprima e la felicità finale per il buon esito incruento della situazione nei nove sonetti “Su e giò de sti rotai…”, tra i quali un decimo sonetto del poeta Antonio Negri si trova interpolato come risposta al settimo. Si arriva così, in bellezza, alla conclusione (Dopo tutt…) e all’Appendice del 2 marzo del 1943. Ad onta della tirata finale contenuta nell’ultima terzina di questo sonetto, ogni cosa procede decisamente a gonfie vele. Un anno dopo, per Pasqua, una delle consuete missive augurali al prof. Fumagalli chiude la parentesi con una poetica barzelletta (autobiografica?) scritta sul retro di una cartolina postale; ma il tempo vola e un anno e mezzo dopo, il 9 gennaio del 1946, Speri Della Chiesa Jemoli moriva, portando con sé quel suo brillante e ineguagliabile tesoro di arguzia e di vivacità che così bene lo caratterizzano fra i poeti dialettali lombardi e ” bosini” in particolare.


Nelle pubblicazioni della Famiglia potrete trovare tre volumi inediti dell’autore: “Varese di temp indrée“, “Novell, panzanegh, canzon, bosinâd e minestron” e “Su e giò de sti rotai...”
Per informazioni: info@famigliabosina.it